Quelli che il treno - XVIII
Quel cavolo di bambinetto con quel cavolo di cappellino che quella sera, anni fa, era nel mio stesso scompartimento (era un venerdì, me ne tornavo a casa dopo una settimana di duro lavoro, e il treno era pieno a tappo - già, c'erano ancora gli scompartimenti da 6, all'epoca), e non stava fermo un attimo, e piangeva, e urlava, e scalciava, e faceva i capricci, e si alzava e si risedeva e si rialzava, e a un certo punto è andato nel corridoio e ha vomitato, e su quel cavolo di treno ci mancava giusto un po' di puzza di vomito, e poi è tornato al suo posto e nel frattempo gli avevano tolto quel cappellino e sotto era pelato, e vieni a sapere che faceva il casino che faceva perché era stanco e nervoso, e che era stanco e nervoso perché era partito per Milano la mattina alle 4 per fare non so che chemioterapia, che poi probabilmente era anche il motivo del vomito; e allora non serve rispolverare reminiscenze liceali, lo capisci anche da solo, capisci che non capisci né puoi capire un cazzo, e capisci, come diceva quello, che non è giusto giudicare la vita degli altri, perché comunque non puoi sapere proprio un cazzo della vita degli altri, e che quindi, nel dubbio, molte volte (mica sempre, eh: molte volte) faresti molto meglio a startene zitto, altro che deriderli o biasimarli per quello che fanno senza avere una vaga idea del motivo per cui lo fanno, e soprattutto, altro che scriverci sopra post a vanvera . Sul treno, poi.