giovedì 29 dicembre 2011

In quattro parole...

...non fate i furbi.

domenica 18 dicembre 2011

Piccoli piaceri del pendolare


Ho fatto un viaggio in treno, l'altro giorno. E fin qua niente di strano, ne faccio due quasi tutti i giorni feriali. Ma quello dell'altro giorno era speciale. Ero seduto vicino al finestrino, il finestrino aveva il vetro doppio, ma qualcosa si era rotto, e nell'intercapedine tra i due vetri era entrata acqua piovana. E quando il treno accelerava l'acqua si inclinava all'indietro, e quando frenava si inclinava in avanti. E quando il treno arrivava in una stazione e si bloccava del tutto, l'acqua che si era spostata in avanti tornava indietro di colpo, facendo le ondine e sollevando del particolato biancastro in sospensione sulla cui natura magari è il caso di sorvolare ma che produceva un effetto palla-con-la-neve assolutamente degno di nota. Insomma, non so se l'ho descritto granché bene ma era un vero spettacolo, credetemi. Quel finestrino rotto ha dato un senso a un viaggio altrimenti noioso e sostanzialmente inutile, a un viaggio che poteva essere uguale a migliaia di altri viaggi e che invece è stato speciale.
E sicché, niente, pensavo che questa cosa qua andrebbe replicata. In ogni carrozza (per cominciare, in ogni carrozza di prima classe) bisognerebbe installare almeno un finestrino con dell'acqua nell'intercapedine tra i due vetri. Così sì che il viaggio sarebbe un vero piacere. E chi darebbe importanza alla puntualità o alla pulizia o a simili bazzecole avendo uno spettacolo del genere da ammirare? Bisognerebbe solo risolvere il problema di coloro i quali, giustamente, quando il treno è ben lanciato tirerebbero il freno di emergenza apposta per gustarsi lo tsunami nel finestrino, ma poi chi mai sceglierebbe ancora altri mezzi di trasporto?
Perché basta così poco, a volte.

martedì 6 dicembre 2011

E 3

La notizia, in breve, è la seguente. La notte scorsa, per la terza volta (ricorderete certo la prima e la seconda), i soliti maledettissimi ignoti mi sono entrati nella Panda. Stavolta hanno forzato la portiera destra, piegandola verso l'esterno fino al punto da far passare un braccio e così sbloccare la sicura. Non hanno rubato niente, anche perché ben poco c'era da rubare, ma la portiera destra, nella parte superiore, diciamo che era più ermetica prima. Mi ci hanno lasciato uno spiraglio largo due dita. Se pioveva ridevo, stamani.
L'augurio più opportuno per questi signori è ovviamente che la prossima notte, e non solo quella, comitive di ignoti penetrino allo stesso modo nel loro succulento orifizio anale, praticandovi un'apertura sufficiente a far passare un braccio, ma di traverso però, e poi lasciandolo socchiuso proprio come loro hanno lasciato la portiera della mia Panda, e che quel pertugio largo due dita gli rimanga tale, aperto e grondante un miscuglio dei loro umori più laidi, per tutti i loro giorni a venire, e che l'emorragia, la merdorragia (?) e simili non gli si arrestino neanche per un momento, neppure allorché costoro crederanno di aver posto fine alle loro ignobili vite sdraiandosi placidamente sotto un metro di terra, ma che inspiegabilmente proseguano fino al completo riempimento e alla successiva ignominiosa esplosione della bara che avrà il disonore di ospitarli.
Ciò detto, tornando a noi, non posso evitare di ringraziare sentitamente il mio esimio collega AGElB e questo signore qui, che al termine della pausa pranzo odierna hanno profuso il loro impegno per il nobile tentativo di rimarginare alla meno peggio quella ferita aperta nella carne viva della mia cara Panda. Tentativo non del tutto riuscito, a dire il vero. Temo che i segni di quanto accaduto non si cancelleranno del tutto. Meglio che niente, certo. Ma povera Panda, però.

domenica 27 novembre 2011

Amore e suoi derivati

Nella mensa che frequento abitualmente è possibile trovare ogni giorno una selezione di secondi piatti caldi, preparati con impegno e mestiere da un rispettabilissimo cuoco, al quale, come sapete, proprio su queste pagine ho già avuto modo di esprimere tutto il mio apprezzamento. Ma ci sono, ahimè, persone particolarmente esigenti, o giorni in cui proprio la rispettabilità, il mestiere e l'impegno non sono sufficienti a conferire a quei secondi piatti un aspetto minimamente invitante. In quei giorni, o per quelle persone, è prevista comunque la possibilità di ripiegare su piatti freddi preconfezionati quali mozzarella, affettati, tonno, carne in scatola o, e veniamo al dunque, stracchino.
Ebbene, lo stracchino che è possibile trovare in mensa negli ultimi tempi è quello rappresentato nell'immagine seguente:

Il produttore, come potete agevolmente vedere, sostiene che il suo stracchino è, testualmente, fatto con latte e amore. E se lo dice lui, anzi se lo scrive, e a maggior ragione se dispone la scritta in bella evidenza sul lato principale della confezione anziché nasconderla tra quelle infilate sul retro nella piegatura dell'involucro, non c'è alcuna ragione per dubitare che sia effettivamente così. E, se la presenza del latte in uno stracchino è un fatto tutto sommato abbastanza ovvio (per quanto di 'sti tempi, signora mia), lo stesso non può dirsi per il secondo ingrediente. L'amore.
Ah, l'amore, l'amore... No, non preoccupatevi, non mi metterò qui a parlare d'amore, generazioni di poeti o sedicenti tali ne hanno scritto e ancora ne scriveranno molto meglio di quanto potrei mai aspirare a fare io. Mi permetto solo di ricordare in parole molto povere che la parola amore ha molti significati e che il concetto di amore si esprime in molte forme. C'è l'amore sacro e poi c'è quello per così dire profano. Ma mischiare uno stracchino con il sacro parrebbe una bestemmia, e infatti non è affatto mia intenzione: concentriamoci quindi sulla seconda tipologia.
Qua necessariamente parlo non già per esperienza diretta ma un po' andando per sentito dire e un po' basandomi sulle informazioni documentarie multimediali che ho attinto nel corso degli anni da fonti altamente qualificate. Ebbene, tra le varie cose che ho imparato c'è che l'amore, l'amore "terreno" di cui stiamo trattando, comporta tra l'altro la produzione, come sottoprodotto delle fasi finali della lavorazione, di una sostanza assimilabile per colore e consistenza al latte, con esso (a occhio) facilmente miscibile e utilizzabile, nelle giuste proporzioni, per la produzione di specialità lattiero-casearie a pasta molle delle quali un tipico esempio è, per l'appunto, lo stracchino.
Uno stracchino che diventa uno stracchino con una marcia in più, a quel punto. Perché non contiene solo il latte, non solo il caglio, non solo il sale, ma ha in sé un ingrediente segreto, uno degli ingredienti della vita stessa, il più puro, candido e gustoso frutto dell'amore. Che probabilmente è proprio quello che gli dona quel sapore particolare e irresistibile.
Quel delizioso sapore d'amore.

sabato 12 novembre 2011

È una ruota che gira

Ché la ruota, quella normale, che serve è chiaro. Lampante. Soddisfa un bisogno pressante. L'uomo sente il bisogno di spostare una roba da qui a lì con poco sforzo, e prima o poi, sotto la spinta di quel bisogno, a inventare la ruota, quella normale, ci arriva. E ci può arrivare per approssimazioni successive, prima piazzando un tronco sotto al blocco di pietra, e poi pian piano perfezionando il concetto, trovando soluzioni che soddisfano sempre meglio il bisogno che sente. Ma, lo sappiamo, già non è sempre facile sapere con precisione di che cosa abbiamo bisogno noi stessi, ancor più difficile è saper intuire, o predire, le necessità degli altri esseri umani, a maggior ragione è chiaro che spostando l'attenzione su altre specie animali le difficoltà non diminuiscono, anzi. Che ne so io, a priori, di cosa può aver bisogno un cane? Vado per tentativi: gli butto un iPhone, vedo che lo lecca un po' su e giù senza apprezzare più di tanto le meraviglie del touch screen capacitivo e poi se ne va, poi gli butto una pallina e vedo che invece ci gioca per ore, e allora, ma solo allora, capisco che al cane piace la pallina e magari perfeziono l'idea creando e commercializzando palline specifiche per cani. Ma, capite, la pallina in sé esisteva già, non è che l'ho dovuta inventare apposta o comunque modificare pesantemente per adattarla al cane. E poi il cane è facile, dà dei ritorni, se una roba gli piace lo fa capire; altre bestie meno.
E quindi, tutto ciò premesso, veniamo al punto: La ruota per criceti.
La classica ruota per criceti, lo sapete com'è fatta, no?, non è una ruota comune: è costituita da tutta una serie di sbarrette metalliche dove la bestiola si aggrappa, è imperniata su un solo lato, e soprattutto, contrariamente a qualunque altra ruota di uso comune, si utilizza dall'interno. Sicché va fatta proprio con quelle caratteristiche lì, e proprio e solo per quello scopo lì: far correre il criceto. Il che significa che qualcuno un bel giorno ha inventato, progettato e realizzato un attrezzo non banale, e non esistente in precedenza, per soddisfare un bisogno non suo ma di un animale tutto sommato evolutivamente alquanto distante da noi quale può essere un criceto. Ai criceti la ruota piace, si sa: sì, bella forza, si sa perché esiste, se non esistesse mica si saprebbe. Quel tale inventore non lo sapeva, non poteva saperlo. E non poteva neanche adattare una ruota già esistente. Provate a dare a un criceto una ruota normale, piena all'interno, tipo una ruotina da triciclo, o comunque una a raggi: inutilizzabile. Provate con un copertone usato di una Panda: troppo grande, troppo scivoloso, e se non è correttamente imperniato al centro col cavolo che gira. Niente, c'è poco da fare, ci vuole proprio una ruota da criceti. E questo tipo l'ha inventata, il suo criceto ci s'è trovato bene, e allora lui l'avrà brevettata, ci avrà tirato su un discreto gruzzolo, com'è giusto che sia data la genialità della sua invenzione, ma poi? Di lui non si sa nulla, salvo forse gli esperti del ramo (che però, è noto, snobbano questo blog) nessuno conosce neppure il suo nome, e ciò, lo ammetterete, è ben strano. Mi viene quindi da pensare che dopo questa botta di genio la sorte gli sia stata avversa: avrà magari provato a applicare semplicemente la sua invenzione, senza modifiche sostanziali, ad altre specie. Avrà forse creato la ruota per galline, distruggendo decine di uova appena sfornate. Si sarà messo d'impegno a ideare una ruota per tartarughe, ma seh, vaglielo a spiegare a quelle. Avrà provato, senza troppa fantasia, con la ruota per pavoni, macché, s'impigliavano tutti. Alla fine avrà tentato il colpaccio e dilapidato il patrimonio derivante dal brevetto per costruire il prototipo della ruota per elefanti, e sarà morto povero e solo. Peccato, però.

sabato 29 ottobre 2011

Doveva succedere, è successo.

Oggi, 29 ottobre 2011 (Sant'Onorato di Vercelli, ma poi anche Sant' Abramo, San Colman di Kilmacduagh, San Dodone di Wallers-en-Fagne, San Feliciano, San Gaetano Errico, San Narciso di Gerusalemme, San Teuderio e San Zenobio di Sidone - e scusate se è poco), dicevo, oggi ho preso la decisione. Era un po' che ci rimuginavo su, in fondo era chiaro che era solo questione di tempo, ma ci voleva del coraggio. Oggi l'ho fatto. Ho radunato e insacchettato, e subito dopo pranzo conferirò negli appositi contenitori per la raccolta indifferenziata siti in fondo alla strada, quanto segue:

E dedicare almeno un post, un singolo misero post, alla memoria di tutti loro, mi sembrava doveroso. Il minimo, proprio.
Addio.

domenica 16 ottobre 2011

Rialfabetizzazione


So di non dirvi niente di nuovo se vi faccio notare che la disposizione dei tasti su una comune tastiera è la seguente:
Q W E R T Y U I O P
 A S D F G H J K L
  Z X C V B N M
E però, ne converrete, si tratta di una disposizione alquanto bizzarra e per nulla intuitiva. Certo, ormai tutti noi ci abbiamo fatto l'abitudine, e quindi ci sembra naturale che l'ordine dei tasti sia proprio questo, ma le prime volte che uno si trova ad avere a che fare con una tastiera l'individuazione e la memorizzazione delle posizioni di tutte le lettere sono operazioni niente affatto immediate.
Com'è noto, i tasti sono stati disposti in questo esatto modo per due motivi fondamentali: evitare che coppie di lettere utilizzate spesso consecutivamente fossero vicine, in modo da non far incastrare i martelletti delle macchine da scrivere, e d'altra parte far sì che coppie di lettere utilizzate spesso consecutivamente si trovassero una nella parte destra e una nella parte sinistra della tastiera, in modo da velocizzare la scrittura a due mani. Tutto ciò ha senso. Bene.
Ma indipendentemente da questa nota storica e dalla plausibilità delle motivazioni che hanno portato a disporre i tasti così, così sono e così ce li teniamo. È tardi per cambiare. Pensate un po' a quante tastiere e a quanti provetti dattilografi ci sono al mondo. No, non si può.
Però, pensate a come sarebbe più semplice l'uso della tastiera se i tasti fossero messi in ordine alfabetico. Un po' come i numeri su un telefono, che sono ordinati dall'1 al 9, mica messi giù a caso.
Ma, come abbiamo visto, cambiare l'ordine dei tasti introdurrebbe più problemi di quanti potrebbe risolverne, perché ormai la gente si è abituata così, e l'abitudine è una brutta roba, quando ci si mette.
La soluzione?
C'è.
Cambiare l'alfabeto.
Tanto, dico, che senso ha, che utilità pratica ha che l'ordine alfabetico sia proprio A, B, C, D, E eccetera? Sinceramente non mi viene in mente nessun motivo valido. E allora via, si cambia. Ci si mette d'accordo, e un bel giorno si rimette in ordine l'alfabeto. E così, come per magia, la disposizione dei tasti viene a coincidere con l'ordine alfabetico. I vocabolari si adegueranno, gli elenchi telefonici chi li usa più. E le nuove generazioni le si prende da piccole e si comincia a insegnargli, anziché l'ABC, il QWE: su, da bravo, bambino, Q, W, E, R, T, Y...
Allora, su, quando si comincia?

sabato 8 ottobre 2011

Il semaforo se ne frega


Sarò strano, lo so, ma il semaforo mi sta simpatico. Il semaforo è democratico. Il semaforo quando è rosso è rosso. E quando è rosso bisogna fermarsi, tutti. Quello col Cayenne e quello col Pandino. Certo, uno può anche passare col rosso, ma lo può fare chiunque, quello col Cayenne come quello col Pandino. L'eventuale sanzione che viene dopo, magari, non è equa, perché non tiene conto del differente impatto che una multa di pari importo ha sul bilancio di un proprietario di Cayenne e di un proprietario di Pandino. Ma il semaforo, lui, non ne ha mica colpa.
Le rotonde no, non sono così. Alla rotonda quello col Cayenne sgasa e si butta in mezzo di prepotenza e quello col Pandino rimane inchiodato lì, sempre se è così fortunato da non essere stato spalmato sull'asfalto da quello col Cayenne di cui sopra. Al semaforo no, al più quando è verde uno sgomma e l'altro sgomma meno, ma finché è rosso si rimane tutti lì, buoni buoni, zitti zitti.
Già i semafori dei treni non sono altrettanto egualitari, fermano i regionali e fanno passare gli intercity, anche se questo ha già una sua logica. Ma i semafori stradali non guardano veramente in faccia a nessuno, fanno come gli pare, non sentono seghe. E mi stanno simpatici.

sabato 24 settembre 2011

Lavoratori di tutto il mondo, in carrozza!

Lo so, lo so, non è una novità, anzi. Già da diverso tempo, in varie regioni, la nostra cara Trenitalia ha stretto accordi che consentono ai membri delle forze dell'ordine, siano essi in servizio o fuori, di usufruire gratuitamente del sempre valido servizio di trasporto viaggiatori offerto dall'Azienda in questione in cambio dell'impegno a sorvegliare la carrozza che occupano, evitando l'insorgere di eventuali situazioni spiacevoli a carico di altri passeggeri e/o del servizio ferroviario in senso lato. È una buona idea, vero? Io credo di sì. E credo che, come tutte le buone idee, andrebbe promossa e se possibile estesa. Insomma, tutti noi conosciamo lo stato non proprio idilliaco in cui versano le nostre beneamate Ferrovie. Ci sarebbe bisogno in effetti, tra le altre cose, di una maggiore sorveglianza sui convogli, e l'iniziativa di cui sopra viene incontro proprio a questa esigenza. Ma tra le altre cose, appunto. Le necessità sarebbero anche altre, e molte di queste probabilmente potrebbero essere soddisfatte brillantemente applicando metodi analoghi. Provo a fare qualche esempio, ma le possibilità sono sterminate.
Non sempre, è noto, l'illuminazione delle carrozze funziona a dovere. Ebbene, le Ferrovie potrebbero permettere agli elettricisti qualificati di viaggiare gratis in cambio di piccole riparazioni ai cablaggi, sostituzione di lampadine fulminate e neon esausti e quant'altro. Anche gli impianti di riscaldamento e condizionamento spesso manifestano qualche incertezza: gli idraulici professionisti potrebbero evitare il pagamento del biglietto se si impegnassero a tamponare tempestivamente gli inconvenienti che causano i maggiori fastidi ai viaggiatori nella stagione corrente. Sui muri spesso si vedono scarabocchi, disegni sconci, scritte di scarso valore letterario: se gli imbianchini potessero viaggiare a sbafo, il problema si risolverebbe in breve tempo. E così i cessi, che non sempre sono esattamente sterili e talvolta presentano anche qualche problema di intasamento, potrebbero essere riportati in condizioni più umane permettendo alle donne delle pulizie di spostarsi a loro piacimento sul territorio nazionale senza pagare un euro. E le tanto vituperate casalinghe, portandosi nella borsetta un aspirapolverino e uno straccetto, saprebbero come provvedere alla perfetta pulitura di seggiolini, poggiatesta, vetri, pavimenti e tendine. Gli ingegneri delle telecomunicazioni potrebbero finalmente trovare un senso alla loro specializzazione sistemando gli impianti di diffusione sonora nelle carrozze e aggiornandoli con le tecnologie più recenti. E così via.
Estendendo un pochino il concetto, si potrebbe permettere di viaggiare a ufo non solo a chi migliora le condizioni operative del materiale rotabile strettamente inteso ma anche ai molti che, col loro lavoro, potrebbero allietare l'esperienza di viaggio dei loro compagni di carrozza, convincendo così sempre più persone a servirsi del treno per tutti i loro spostamenti quotidiani. I cantanti che volessero viaggiare gratis (in prima classe se sono stati ad Amici) potrebbero esibirsi a turno tra una stazione e l'altra, all'interno di scompartimenti insonorizzati allestiti all'uopo. I pittori, portandosi tavolozza e tempere, potrebbero creare intriganti trompe-l'œil negli spazi compresi tra due finestrini. Le cosiddette escort, o per meglio dire puttane, potrebbero offrire i loro apprezzati servigi a capotreni stressati da comitive di furbastri, macchinisti annoiati da paesaggi uniformi e passeggeri fortunati, magari estratti a sorte. E così via.
E pensate che spettacolo sarebbe veder passare un treno del genere. Tutti affaccendati, uno chino a stringere bulloni, uno arrampicato sui poggiatesta che affresca il soffitto, uno che suona il bongo, una laggiù in fondo che rigoverna cappelle (copyright di un mio collega, credo), uno che pianta chiodi a casaccio pur di far vedere che sta facendo qualcosa... Certo, per un motivo o per l'altro quasi nessuno pagherebbe più il biglietto. Ma volete mettere.

sabato 3 settembre 2011

SFP

Nei giorni scorsi, per motivi personali (ovvero miei), sono stato a fare un giretto all'estero. Mica tanto lontano, eh, ma comunque in un Paese nettamente, palesemente, indiscutibilmente più evoluto del nostro, giacché, a differenza del nostro, ha l'onore di ospitare non uno ma svariati punti vendita di una celebre catena di fast food specializzata in pollo fritto. Ché si fa presto a dire pollo fritto: quelli friggono pollo in maniera a dir poco sublime. E, appunto, avendone la possibilità, diciamo che in questi giorni ho fatto del pollo fritto la mia principale fonte di alimentazione. Con gusto. Eppure, pensavo tra un'aletta piccante e l'altra, in fondo non è che pollo. E il pollo non è certo il mio cibo preferito. Il pollo, di suo, è carne bianca, delicata, morbida, magra, non particolarmente saporita; va bene giusto all'asilo e in ospedale, di suo; eppure quel pollo, il pollo fritto come lo friggono in quel posto lì, mi piace, e anche tanto, e come a me piace a un sacco di altra gente, a giudicare dall'affollamento di quei locali. Ma il problema è, di base, rimane pollo. Ovvero, l'idea è buona ma si può fare di meglio. Si può ideare e creare una catena concorrente che sfrutti i concetti di base di quella già affermata ma che proponga cibi addirittura più appetitosi, e che quindi possa ottenere senza difficoltà un successo ancora maggiore. Sentite qua l'idea:

SFP - Sarzana Fried Pork
Ovvero: un fast food basato sul porco fritto. Tutto qua. Porco in tutte le sue forme, impanato con un miscuglio totalmente naturale a base di erbe dalle conclamate proprietà allucinogene capaci di creare un'irrefrenabile dipendenza, ma di base sempre e solo lui: porco. Si andrebbe dalle normali bistecche fritte, che vanno sempre, alle braciole fritte (le vedrei bene col peperoncino, quelle), fino ad autentiche leccornie quali pancetta fritta, salsicce fritte, fette di cotechino fritte e cubettoni di lardo fritti. Qualche temerario potrebbe anche volersi cimentare con un succulento stinco fritto, servito rigorosamente intero. Per chi non ha tempo di sedersi a mangiare ma desidera sgranocchiare qualcosa per strada, cosa c'è di meglio di un'orecchia fritta da impugnare come un cono gelato? Ai bambini piaceranno senz'altro i nostri würstel fritti, mentre chi cerca ricette legate al territorio potrà trovare, in ogni ristorante, la specialità locale a base di porco (ché tanto ovunque vai ne trovi una, decenni di Linea Verde insegnano) fritta a puntino. Testa in cassetta fritta, da queste parti, ad esempio. Di contorno? Beh, io sarei per proporre alternativi cartocci di ciccioli, ma in effetti la clientela potrebbe preferire delle banalissime patatine fritte, e visto che l'olio caldo ce l'abbiamo potremmo anche accontentarla (attacca il porco dove vuole il padrone, come si suol dire, no?). Come dessert, ovviamente, frappé di strutto. Tutto in porzioni abbondanti e preparato con ingredienti di prima scelta, almeno per il primo mese.
Per il logo avevo pensato, anche in questo caso, di non inventare niente di nuovo ma di migliorare l'esistente. Anche la nostra catena, quindi, avrà nel simbolo una foto dell'ideatore, fondatore, padrone, presidente e capo supremo, ovvero, per farla breve, mia.
Il dominio sfp.it è già registrato, ma per averlo dovrebbe essere sufficiente offrire ai legittimi proprietari un buono omaggio per qualche quintale di porco fritto. Problema risolto.
Mancano solo i capitali. Eppure, capite bene, con un business del genere i ritorni sarebbero quasi assicurati.
Forza quindi, gente: investite.

domenica 7 agosto 2011

Sarebbe da farci un post

Allora, sentite un po' questa storia qua. L'altro giorno ero lì in treno che tornavo dal lavoro, il treno si ferma in una stazione, guardo fuori dal finestrino per capire in che stazione siamo e vedo quanto segue.
Marciapiede del primo binario, sotto la tettoia. Di qua un padre che spinge un passeggino, e nel passeggino il figlio di pochi anni che quel padre evidentemente aveva voluto portare alla stazione a veder passare il treno. Un po' più in là una figlia che spinge una carrozzella, e nella carrozzella l'anziana madre che da quella figlia evidentemente aveva voluto essere portata alla stazione a veder passare il treno. Tutti e quattro rivolti verso il treno, ovvero, inconsapevolmente, verso di me che li stavo a guardare da dietro il finestrino. Penso che sia fin troppo chiara l'antisimmetria della scena. Ma la cosa più interessante erano gli sguardi. Quelli dei due accompagnatori, da cui trapelava l'affetto per il rispettivo accompagnato ma anche, tutto sommato, la noia per uno spettacolo non certo straordinario quale può essere l'arrivo e la ripartenza di uno sgangherato trenino regionale. E soprattutto gli sguardi dei due accompagnati, entrambi rapiti dal misterioso fascino del treno, entrambi sognanti ma di sogni diversi, uno che forse immaginava viaggi impossibili in mondi lontani, resi fantastici dagli echi delle favole a cui credeva ancora, l'altra che probabilmente ricordava viaggi fatti in tempi lontani, resi fantastici dal semplice filtro del tempo.
Insomma, per farla breve, persino io che sono tutto sommato un grezzo, uno zotico, direi quasi un buzzurro, ebbene, persino io mi sono quasi commosso. E ho pensato, sarebbe da farci un post. Solo a esser buoni. È che io non ne sarei mica in grado, di scrivere un post all'altezza, purtroppo. Ci vorrebbe qualcuno che sapesse scrivere ma per davvero, per parlare degnamente di queste cose qua. Però so con certezza che tra i miei lettori non mancano valenti scrittori di animo nobile che se solo volessero saprebbero trarre da questa scenetta un post, per dirla in poesia, coi controcazzi. E allora forza, gente, su: fuori 'sto post.

venerdì 22 luglio 2011

Iperquark

Doverosa premessa: sono sinceramente convinto, questa volta ancor più di altre, che quanto sto accingendomi a scrivere sia, come usa dire, una cagata pazzesca. Ma tant'è.
Alcuni giorni orsono, attraverso non ricordo quali impervi e tortuosi percorsi, la discussione si è indirizzata sul seguente argomento: il culo del cavallo. C'era infatti tra noi qualcuno che sosteneva la bizzarra tesi secondo cui il culo del cavallo non sarebbe, per così dire, a tenuta stagna, ovvero che lo sfintere anale equino non sigillerebbe alla perfezione, bensì lascerebbe sempre aperto uno spiraglio, naturalmente bidirezionale; e questo sarebbe poi il motivo per cui la bestia in questione, oltre a scagazzare in giro senza sforzo alcuno come e quando gli scappa, se immersa in un liquido comincerebbe inesorabilmente a imbarcarlo, giungendo perfino, allorché il sostegno garantitogli dal buon vecchio Archimede non fosse più sufficiente, all'annegamento. Niente meno.
Che morte indegna, eh? Già. Non facciamoci prendere dall'emozione, però. Ragioniamo.
Qualche argomento a sostegno della tesi, o almeno del primo corollario, in effetti si trova con relativa facilità. Tutti noi abbiamo ben chiara in mente la bucolica immagine di un cavallo al passo che, mentre avanza nobile e sicuro lungo una sterrata vicinale di campagna, impassibile alza la coda e lascia cadere al suolo una serie di fragranti e inequivocabili segni del suo passaggio. Provate voi a cagare camminando (prima avvisate, però) e vi accorgerete di cosa vuol dire.
La seconda e più notevole delle conseguenze della tesi - l'annegamento, appunto - è però nettamente più difficile da verificare per via sperimentale, e comunque assai più lontana dal nostro senso comune e dall'immaginario collettivo della civiltà occidentale: chi non ha visto almeno una volta, al cinema o alla televisione o giù di lì, un cavallo che guada un fiume, o ancor meglio una mandria di stalloni montati a pelo da ululanti indiani che si lanciano nel grande fiume che attraversa le sterminate praterie del West all'inseguimento del nostro eroe solitario? Orbene, non si è mai visto, e dico mai, un solo singolo unico misero cavallo che a metà del guado rallenta e si pianta come ingolfato, venendo trascinato dalla rapida corrente verso il lontano oceano senza alcuna motivazione plausibile.
La mia fonte ha però una spiegazione anche per questo: sostiene costui che, ben mimetizzato tra la moltitudine di gente che scorre nei titoli di coda del western, qualcuno, probabilmente sotto mentite spoglie (tiene famiglia...), abbia l'ingrato ma fondamentale compito, poco prima del fatidico ciak, di impermeabilizzare i cavalli che loro malgrado prenderanno parte alla scena inserendo appositi stracci laddove opportuno. E che la stessa operazione venisse compiuta anche nella realtà, nel leggendario occidente ma non solo, da chiunque avesse la necessità di percorrere un corso d'acqua di altezza superiore a quella del tubo di scarico del proprio fido destriero.
Ora, voi non provateci a casa, ma a occhio direi che un cavallo potrebbe non reagire benissimo al tentativo di inserimento di un improvvisato e ruvido turacciolo proprio , e vaglielo a spiegare che è per il bene suo, della comparsa sopra di lui e della storia del Cinema in senso lato; e anche per questo, si diceva, quel signore là faceva proprio un lavoro di merda. E quindi voialtri non lamentatevi. E a lavorare, ora.

giovedì 30 giugno 2011

Leggere da sinistra verso destra

L'altro giorno, nel vano tentativo di ridurre di un grammo l'entropia dell'universo, o almeno di questa stanza, mi sono imbattuto in un vecchio manuale di istruzioni (oddio, vecchio... ha 19 anni, beato lui... vabbé, chiusa la parentesi, che è meglio) di un vecchio sistema operativo di un vecchio computer. Un famoso sistema operativo in versione 3.1, tanto per capirci senza fare pubblicità occulta non retribuita. Dovreste vederlo, quel manuale. È un tomo alto così. Settecentocinquanta pagine tonde tonde, per la precisione. Naturalmente non l'ho mai letto neanche di sfuggita, e molto probabilmente come me si sono comportati in tanti. Anzi, in molti l'avranno conferito negli appositi contenitori tempo 5 minuti dall'apertura dello scatolone. E chi di dovere se ne dev'essere accorto, tant'è che i sistemi operativi moderni dei moderni computer vengono forniti con un libretto di istruzioni di poche pagine o addirittura senza alcuna documentazione cartacea. Questa circostanza tuttavia, com'è evidente, non ha pregiudicato in alcun modo l'alfabetizzazione informatica di massa, anzi. Cosa che dimostra l'assoluta inutilità, se non peggio, di tutte quelle istruzioni. Ma non è l'unico caso. Ricordo di uno shampoo sulla cui etichetta era scritto testualmente "Modalità d'uso: come un normale shampoo" (e perché, testa di aloe, cosa ti credi di essere?), ma ognuno di voi lettori potrà trovare, nella propria esperienza di vita, numerosi esempi di istruzioni ridondanti o pleonastiche.
Ma non è mica sempre così.
Se è corretto spiegare per filo e per segno al paziente che acquista un pacchetto di supposte qual è l'unica corretta modalità d'uso del prodotto di cui è appena entrato in possesso, onde evitare che tale prodotto si attacchi al lavoro del suo dentista, allo stesso modo sarebbe il caso di spiegare a un eventuale ignaro acquirente di un pacchetto di sigarette che non è il caso di utilizzarle allo stesso modo delle supposte - almeno, non dopo averle accese - almeno, non dal lato acceso. Uno che si compra una macchina nuova, pur avendo (si suppone) una patente di guida e quindi avendo seguito (si spera) opportuni corsi, se appena si azzarda a leggere il manuale si ritrova sommerso di informazioni ovvie come "Girando il volante verso destra il veicolo va a destra", ma neanche un microscopico adesivo di carta straccia informa il fresco possessore di una fiammante bicicletta che per spostarsi dovrà pedalare col sudore della fronte: e uno avrà pure il diritto di non saperlo, o no? E chi insegna all'ignaro acquirente di un immacolato paio di mutande qual è il davanti e quale il dietro? Eppure la differenza è notevole, eh, provare per credere. Ma niente. Ci vorrebbe una legge, un testo unico, una circolare ministeriale, un qualcosa che obblighi a spiegare alla gente ignorante-nel-senso-che-ignora tutte le cose che vanno spiegate, e solo quelle. Bisognerebbe proporlo. Ma come si fa? Chi lo sa. Non c'è mica scritto.

domenica 19 giugno 2011

We shall never surrender (dicono)

Li prendono subito, già dall'inizio, appena mettono piede in stazione. L'apposita vocina squillante gracchia dai rugginosi altoparlanti: Attenzione: è vietato attraversare i binari. Servirsi del sottopassaggio. E subito dopo: Attention please: it's strictly forbidden to cross the railway lines. Ovvero, ci aggiungono strictly, cosicché quelli s'immaginano plotoni di controllori scelti appostati sulle pensiline e pronti a balzar loro addosso qualora si azzardino a posare la suola di una scarpa sull'acciaio di una rotaia, e però, perfidi, non gli suggeriscono la soluzione (il sottopassaggio). In modo da farli sentire subito a disagio, stretti tra la necessità di arrivare al binario 3 in tempo, il desiderio di continuare a vivere anche dopo che un eventuale treno in transito sul 2 sia transitato e l'imperativo morale di non trasgredire una regola imposta da un'autorità superiore. E così il loro treno arriva al binario 3 e riparte, e loro sono ancora lì sul marciapiede del binario 1 a implorare aiuto. Finché finalmente, vedendo la gente del luogo che scende le scale di fronte a loro e poco dopo gli risbuca alle spalle, fanno due più due e risolvono l'enigma, passando al livello successivo.
Appena risaliti sul marciapiede giusto, in attesa del treno successivo al loro, la gentile vocina bastarda comunica quanto segue: Attenzione: treno in transito al binario 3. Allontanarsi dalla linea gialla. E poi, da vigliacca: Attention please: there will be a train in transit at platform 3. Che, come capite, è ancora peggio di prima. Perché la frase in italiano nasconde un'insidia di non poco conto. Chiunque abbia una minima infarinatura di geometria elementare sa bene che "allontanarsi da una linea", su un piano, può significare muoversi in una direzione oppure in quella opposta. Bisognerà spostarsi dalla parte di qua, verso il centro del marciapiede, o dalla parte di là, verso il centro del binario? Non è specificato, e non è un caso. L'italiano ormai lo sa, l'altro no; crede solo di aver capito, dall'esperienza maturata al livello precedente, che gli conviene ascoltare le informazioni diramate in quella lingua a lui ostile piuttosto che nella sua, e così ha prontamente estratto il fido dizionario tascabile e ha tradotto alla lettera l'avviso; ma non lo sa interpretare. Ha solo il 50% di probabilità di arrivare al livello 3.
Arrivarci vuol dire essere ormai sul treno, in ritardo ma vivo. E qua il nostro avventuroso amico, rilassato su un seggiolino reduce da molte battaglie perse, si gode l'aria condizionata a palla senza dar peso a quell'adesivo applicato sul finestrino: Carrozza climatizzata: aprire solo in caso di necessità - Conditioned coach: do not open. E il caso di necessità, puntuale come il fatidico mostro di fine livello dei videogiochi anni 80, non si fa attendere. E il nostro eroe straniero, colto alla sprovvista senza modo e tempo di tradurre, anche grossolanamente, la scritta in lingua neolatina, si ritrova stretto tra il finestrino ermeticamente chiuso e non apribile per nessun motivo (do not open, punto), il fuoco che avanza, e la legge morale dentro di sé.
Vogliamo ricordarlo così.

martedì 31 maggio 2011

Conviene obbedire.

Ovvero:

È pericoloso rifiutarsi.

domenica 22 maggio 2011

Un abbonato ha sempre un posto in prima fi

Non sempre una nuova invenzione genera un nuovo oggetto. Talvolta si inventano anche delle idee, dei concetti, magari verificabili e brevettabili con minor facilità ma altrettanto, se non addirittura maggiormente, influenti sulla vita di chi se ne avvale e dell'umanità nel suo complesso. Penso ad esempio alla politica: qualcuno, prima o poi, ha inventato i concetti di dittatura, democrazia, mafia e via dicendo. E queste invenzioni si sono diffuse. Ma anche limitando l'osservazione alla vita quotidiana dei singoli gli esempi non mancano. Per dire: negli ultimi tempi, come qualcuno tra i lettori più attenti avrà forse intuito, prendo spesso il treno. Quasi sempre sulla stessa tratta. E quindi non acquisto biglietti di corsa semplice ogni volta, ma faccio l'abbonamento. Ebbene, il concetto di "abbonamento" l'avrà pur inventato qualcuno. Ed è stata una buona idea, la sua. E infatti si è diffusa con successo in diversi settori. La corriera, la palestra, le riviste, il teatro, la televisione. Ma la diffusione delle buone idee (la democrazia, l'abbonamento) andrebbe favorita, sostenuta, agevolata. Magari pacificamente, finché possibile, però di certo in un modo o nell'altro andrebbe incoraggiata ed estesa a nuovi ambiti.
L'autostrada, ad esempio. Uno che, per lavoro o per le sue ragioni, dovesse percorrere spesso il solito tratto di autostrada, potrebbe pagare un tot al mese ed essere libero di percorrere quel tratto (e solo quello) senza limitazioni. Basterebbero dozzinali modifiche al software che gestisce i Telepass o le Viacard, o banalmente un apposito tagliando da mostrare al casellante insieme al biglietto di ingresso. Facile e conveniente.
Ma anche McDonald's, per dire una catena diffusa capillarmente sul territorio e da sempre attenta alle ultime evoluzioni tecnologiche e sociali, potrebbe introdurre forme di abbonamento: in cambio del pagamento di una cifra forfettaria mensile, oppure a seguito di un congruo lascito testamentario, potrebbe consentire ai propri clienti di cibarsi liberamente presso i suoi ristoranti per un mese o finché dura, rispettivamente. Dovrebbero essere studiati e introdotti alcuni vincoli onde scoraggiare i furbastri (obbligo di consumare tutto all'interno del locale, ad esempio), ma sono convinto che l'idea riscuoterebbe il successo che merita.
Ma, facile previsione, il successo maggiore il concetto di abbonamento lo riscuoterebbe se fosse applicato a quella nobile forma di commercio che è tradizionalmente denominata meretricio. Il cliente abituale pagherebbe un tot al mese (sconti speciali per militari e sottosegretari) e potrebbe usufruire fino allo sfinimento dei servigi offerti da signorine di comprovata resistenza e professionalità. Prevedo la vostra obiezione, esperti lettori: uno dopo un po' si stufa, ha voglia di cambiare. Obiezione accolta. Infatti in questo caso la validità dell'abbonamento dovrebbe essere estesa a tutte le partecipanti ad appositi consorzi, o cooperative che siano: l'utente, esponendo l'apposito tagliando (appeso dove? boh, fate voi), potrebbe rivolgersi a suo piacimento a una qualunque delle consorziate o cooperanti (una per volta, eh, però...) e ottenere il servizio che desidera e che gli spetta. Certo, sarebbe necessario un minimo di organizzazione, di coordinamento, e noi italiani sappiamo che non è il nostro forte: ma volete mettere i vantaggi?

domenica 8 maggio 2011

Vita vissuta

[questo post è troppo lungo, è vero, ma non avevo tempo di scriverlo più corto]
Ho installato l'accendisigari nella Panda, l'altro giorno. Ci ho messo una mattinata intera. Ho fatto anche un lavoro tutto sommato decente, considerando che gli strumenti a disposizione non erano pienamente idonei e che non avevo, prima, alcuna esperienza di installazione accendisigari su Pande. E perciò ve lo racconto. E se non ve ne frega niente, ve lo racconto lo stesso.
Ebbene, per prima cosa ho dovuto stabilire quale fosse la dislocazione più appropriata. La scelta è caduta su quel pezzetto di plastica con un angolo stondato che sta all'estremità superiore destra del cruscotto, accanto ai pulsanti, sopra la bocchetta. Ma come sarà ancorata quella placchetta di plastica al resto della plancia, pensavo, e come occorrerà agire per rimuoverla correttamente? Dopo qualche sommaria ispezione, ho optato per il sempre valido vecchio metodo del colpo secco. E la placchetta s'è staccata, permettendomi di scoprire che era incastrata per mezzo di tre linguette di plastica. Era. Ora, due.
Successivamente ho dovuto escogitare un modo per fornire l'alimentazione elettrica a quell'accendisigari. Svanito il sogno di trovare due bei cavi ad attendermi proprio lì sotto la placchetta, e dopo aver compulsato il manuale di uso e manutenzione che forniva, al paragrafo "Autoradio", indicazioni platealmente fuorvianti, ho rimosso senza particolari difficoltà l'intera parte anteriore del cruscotto, scoprendo al di sotto di essa, con sollievo, l'esistenza di una provvidenziale matassina di cavi predisposti dal saggio progettista della Panda al fine di agevolare chi volesse installare su di essa autoradio o componenti assimilabili. Rimossa la gommapiuma che li avvolgeva (che, sì, forse serviva a ridurre le vibrazioni, ma via, la gommapiuma è roba da femminucce, e noi siamo uomini veri, si sa), ho adocchiato due cavi che, dalla faccia, davano l'idea di essere proprio quelli dell'alimentazione, e con abile mossa li ho fatti arrivare fino all'alloggiamento previsto.
Fin qua tutto facile. Ma ora si trattava di forare la placchetta di plastica, rimossa in precedenza, cosicché potesse fungere da alloggiamento per l'ormai famoso accendisigari. Con un apposito trapano l'operazione sarebbe stata assai più semplice, ma tra la volontà di evitare di evitare di impiastrare di plastica fusa la punta del trapano, e tra quel minimo di sano disprezzo per le cose troppo facili, ho scelto un'altra strada. Strada lastricata di: pezzi di ferro arroventati sul fornello della cucina - seghetti palesemente progettati per altri scopi e comunque reduci da mille battaglie perse - pezzi di carta vetrata ma più carta che vetrata - lime di foggia e dimensione adatta più alle sbarre di un carcere di massima sicurezza che a ogni altro scopo - alla fine, nella disperazione, anche viti autofilettanti - e molto, molto sudore. Ché tra l'altro quella placchetta di plastica lì dovrebbe essere, ho scoperto, il componente più robusto di tutta la Panda, quello progettato per resistere a qualunque cataclisma e per testimoniare nei secoli dei secoli, agli archeologi di civiltà future che vi s'imbatteranno, l'esistenza di un prodigio della meccanica del XX secolo chiamato Panda. Come che sia, dopo ore di cruente lotte senza esclusione di colpi da ambo le parti, la placchetta è stata violata con un foro di forma molto approssimativamente circolare, e l'accendisigari ha potuto trovare la debita collocazione.
Ultimo ma non meno importante problema: i cablaggi. Due linguette metalliche sull'accendisigari, una collegata alla parte esterna, una al pippolino centrale in fondo (scusate la terminologia tecnica). Due cavi provenienti dal quadro elettrico della Panda, uno nero e uno rosso. Chi sarà cosa? Chi andrà collegato dove? 50% esatto di probabilità di sbagliare. E allora, quand'è così, si va a intuito. A occhio, il pippolino centrale dà l'idea di "+", e la parte esterna di "-". Allo stesso modo, il cavo nero sa di "-", quello rosso di "+". Ché qua bisogna entrare nella psicologia perversa dei progettisti di accendisigari e dei redattori di cervellotici standard di codifica dei colori: un ginepraio. Incredibilmente, per una volta, mi è andata bene.
E sicché ho messo un po' di nastro isolante qua e là, che non guasta mai, ho rimontato a modino la plancia, e ora ho una Panda con un accendisigari. Che non è mica da tutti. Una roba prestigiosa. Quasi d'élite.
E ora lo sapete anche voi.

lunedì 2 maggio 2011

martedì 12 aprile 2011

Via col vento

No, secondo me no. Voi dite di sì? Boh, se lo dite voi forse può essere, di solito voi ci prendete abbastanza, ma io credo di no. Poi magari qualcuno ci avrà pure studiato sopra - su cosa mai non hanno studiato? - ma per me si vede anche a occhio. Cioè, tipo, per l'aquila reale (Aquila chrysaetos), per l'airone cenerino (Ardea cinerea), ma anche per il volgare piccione (Columba scagazzans) si vede subito che è diverso, e anche la mosca, nel suo piccolo, la vedi che ha una certa massa, una certa inerzia, e quindi una certa direzionalità, un certo potere di scegliere se posarsi su questa merda qua o su quella bistecca laggiù o su entrambe nella giusta sequenza; poi è chiaro che se c'è un uragano anche lei fa quello che può, si arrabatta, ma insomma in condizioni nominali le ali le usa per andare dove ha da andare.
La farfalla secondo me no. Quella le ali ce le ha per farsi vedere, per darsi arie da strafica quando le fa ondeggiare con sensuale lentezza suggendo senza fretta il prelibato nettare di un delicato fiore raro (nel parco del re, sì). Ma poi, quando si tratta di staccarsi da lì e svolazzare fino al prossimo arboscello fiorito, e spira quella frizzante brezza primaverile, beh lì sono cazzi. Secondo me quella, benché tenti di dissimularlo come le migliori ballerine classiche, che danzano sulle punte con quel sorriso dolente ma impeccabile, in silenzio smadonna come un camionista a lungo raggio mentre, sospinta qua e là dalle folate di quel piacevole venticello, sbatte le sue sproporzionate alone cercando senza successo di dirigersi verso quell'aiuola là, o almeno di atterrarci nei pressi.
Mentre tutto intorno a lei, grazie ad ali meno appariscenti ma più pratiche, l'aquila si lancia sicura sulla marmotta, l'airone sulla trota, il piccione sul turista, la mosca sulla merda.

domenica 3 aprile 2011

Sono degli artisti (forse)

Chissà se l'hanno fatto apposta o se la coincidenza perfetta tra la mano della tipa e la cornice del finestrino è solo, appunto, una coincidenza.
Nel primo caso, chissà quante prove hanno dovuto fare, quante volte la tipa ha dovuto spostare la mano un po' più in qua [clic], un po' più in là [clic], un po' più in su [clic], un po' più in giù [clic], come i giapponesi che si fanno le foto l'un l'altro in piazza dei Miracoli fingendo di reggere la torre, ché la mano deve appoggiarsi perfetta alla torre, né un centimetro in fuori né uno in dentro: solo che lì è facile, la torre c'è ed è grandina, là il finestrino era virtuale. Oppure, se la tipa voleva essere pagata un tot a scatto, chissà quante volte hanno dovuto stampare la stessa foto, incollarla al treno, scollarla, ristamparla un po' spostata, riincollarla eccetera. Oppure, beh, sì, ci sarebbe anche una terza possibilità, ma onestamente stento a credere che quel finestrino lì sia stato progettato di quelle dimensioni lì e posizionato in quel punto lì solo perché lì c'era la mano della tipa. Ma chissà, forse sarebbero capaci anche di questo, mai sottovalutarli.
Se invece è un caso, beh, c'è poco da dire: che culo.

sabato 26 marzo 2011

Riproteine

No, lo confesso: non sono vegetariano. La carne mi piace, la mangio con gusto e in abbondanza, se ce n'è e se è buona, ma anche se non è quel granché. Però in fondo in fondo un briciolo di senso di colpa mi viene. So che ho ucciso un essere vivente, e che prima di farlo morire gli ho fatto passare una vita di merda. Tirato su tra ormoni e antibiotici, in spazi angusti e malsani, in tempi e modi che poco o nulla hanno a che vedere con quelli che la natura aveva dato in sorte a quella povera bestia. D'altra parte, cacciare animali liberi non è una soluzione, anzi. Ritornava una rondine al tetto eccetera. Lo so. Sono uno stronzo. E però le proteine sono necessarie, e buone. E allora? Allora non arrivo al punto di rinunciare alla carne ma cerco almeno di rispettarla, di trarne il massimo vantaggio, di dare un minimo di senso alla vita e alla morte di quella povera bestia che non ha scelto né l'una né l'altra e che si è ritrovata suo malgrado nel mio piatto. E quindi cerco di sfruttarla fino alla fine, di non buttarne via, di non lasciarne lì, di trangugiarla tutta spolpando con cura gli ossi e magari di riprenderne, se ne è avanzata. E non sono l'unico, a occhio. Mi pare che in diversi la pensino come me, che diverse persone, fortunatamente, onorino le creature viventi che le nutrono. E che tra queste persone vi sia, in particolare, il cuoco della mensa dove mangio di solito. Anche lui, a suo modo, probabilmente pervaso dai miei stessi sentimenti e conscio delle maggiori responsabilità che il suo ruolo gli impone, cerca per quanto nelle sue umane possibilità di onorare e rispettare la carne. E quindi non si limita a acquistare e cucinare parti di ultima scelta di bestie acciaccate di razze appena commestibili, quelle parti di quelle bestie di quelle razze che verrebbero scartate con ribrezzo da qualunque normale acquirente di qualunque Paese minimamente sviluppato, e quindi finirebbero senza gloria alcuna in sfarinati di origine animale per erbivori o in esche per trappole per topi o in terreni di coltura per colonie batteriche. Lui restituisce loro dignità, ma fa di più. Si adopera concretamente per limitare i possibili sprechi perpetrati dai clienti, facendo servire loro porzioni che lascerebbero appetito a un lillipuziano sazio. Ma ancora non basta. Costui, questo genio della cucina rispettoso dei viventi, le studia tutte, passa probabilmente nottate insonni, pur di escogitare soluzioni sempre nuove per riciclare, restaurare, ricondizionare, rielaborare e riproporre gli avanzi dei giorni precedenti. E così il roast beef (beef? boh), con due scaglie di formaggio e un po' d'insalata, diventa carpaccio. Il lesso, con due patate e molta onestà, diventa semplicemente lesso rifatto. L'arrosto diventa spiedino, lo spiedino diventa spezzatino (il famoso spezzatino col buco, uno dei suoi cavalli di battaglia), tutto ciò e molto altro diventa polpetta o polpettina o polpettone, il quale a sua volta, se la campagna è stata particolarmente generosa, si unisce agli avanzi di fagiolini, piselli, carote e quant'altro (ché anche il regno vegetale ha la sua dignità) e dà vita al famigerato medaglione, indicatissimo per quei nostalgici che vogliono rivivere in un colpo solo le emozioni che gli hanno dato tutti i secondi piatti e tutti i contorni di tutti i giorni della settimana passata. Ingredienti non identificabili neanche con le più avanzate tecniche di analisi del DNA e non databili neanche col carbonio 14 generano il ragù, il quale a sua volta, con le opportune integrazioni, si trasforma nel ripieno dei tortellini, che poi vengono ripassati al forno. Dopodiché, chissà. Quel che è certo, quel che conta, è che quella bestia non è morta invano.

domenica 13 marzo 2011

domenica 6 marzo 2011

Nutrire la Magra

Mi piace il mio fiume. È un fiumiciattolo come tanti, per tanti, ma per me è il mio fiume. E mi piace. M'è sempre piaciuto. Lo chiamano Magra, anzi, chi se ne intende sostiene che sarebbe femminile ("la Magra"), ma poco importa. È il mio nel senso che scorre a poca distanza da qui, saranno tre chilometri, sicché ai miei tempi spesso prendevo la bici e ci andavo, scendevo da via Pecorina, poi facevo il classico giretto corto tornando verso casa all'altezza di Gerardo, oppure allungavo fino a sbucare sul vialone dietro all'autolavaggio o addirittura dietro al Mogol, oppure, una volta giunto alla presa dell'acquedotto, anziché girare a sinistra prendevo verso la sorgente arrivando fino al ponte della ferrovia o (avendone proprio molta voglia) a quello dell'autostrada, e tornavo indietro passando sulla sponda destra. Poi, con gli anni, ho gradualmente diradato le visite, ma ogni tanto ci vado ancora, e su per giù, nel suo piccolo, è sempre lui. Un fiume che definirei onesto.
Tutto questo per dire cosa? Niente, che al mio fiume gli voglio bene. Per quanto si possa voler bene a un fiume. A lui in quanto tale e a tutti gli esseri viventi, animali e vegetali, che lo abitano. Perché, sapete, c'è un mucchio di bestiole e di pianticelle, al fiume. Grandi e piccole. E a tutte voglio bene. E voglio che tutte vivano bene. Che abbiano nutrimento a sufficienza. Tutta la catena alimentare, proprio. Che, a occhio, parte dagli esserini più piccoli. Se loro hanno da mangiare sono contenti, poi qualcuno più grosso mangerà loro e sarà contento, e così via, e così tutti saranno contenti, me compreso.
Per questo motivo, sono lieto di annunciarvi che poco prima di iniziare a scrivere questo post mi sono ritirato nella stanzina qua accanto, e che poco dopo esservi entrato ho donato ai simpatici colibatteri fecali che abitano il mio fiume (il tratto a valle del depuratore, per l'esattezza) due o tre bei blocchi cilindrici e marroni di sostanze biologiche altamente nutrienti, roba di cui vanno senz'altro ghiotti. E ora mi sento meglio. Perché gli voglio bene.

martedì 1 marzo 2011

mercoledì 23 febbraio 2011

Un post evoluto

Dice: la selezione naturale. L'evoluzione. Tanta roba, no? Le specie, tutte le specie, animali e vegetali, per natura variano e pian piano si evolvono, ovvero migliorano. Caspita, sì, a prima vista è una gran cosa, non c'è dubbio. Guardandola da lontano, a livello di specie. Però poi il casino è che le specie sono formate da individui, lo so persino io che non sono del ramo. E la selezione naturale vuol dire che il leone, se è miope, non vede la gazzella, muore di fame, non si accoppia con la leonessa e non produce leoncini miopi. E mediamente la specie "leone" migliora, alla faccia dell'individuo "leone", il quale probabilmente non ne è felicissimo. Avrebbe preferito campare, lui. Ma nessuno ha chiesto il suo parere.
L'uomo ha inventato, tra le altre cose, gli occhiali (e pure le lenti a contatto). E quindi le probabilità che un uomo miope si riproduca sono praticamente le stesse di uno che ci vede bene. Ma, detta a spanne, se un uomo miope 1 (in una scala da 1 a 10) si accoppia con una donna miope 1 nasceranno bambini miopi 2. Questi si metteranno gli occhiali anche loro, solo un pochino più spessi, e magari si accoppieranno con altri individui miopi 2, producendo bambini miopi 4, e così via. E lo stesso concetto, ovviamente, vale per quasi qualsiasi altra sfiga psicofisica.
Gli individui, presi singolarmente, sono contenti, la specie rimane fregata. O almeno, a un certo punto della storia della razza umana (a occhio, un punto già passato da un pezzo), la selezione naturale finisce. Non finisce la selezione tout court, naturalmente. Se ne introduce una diversa, basata su vestiti e macchine, o a voler essere generosi su simpatia e intelligenza. Ma funzionerà anche questa? Quella naturale era stata testata per milioni di anni su miliardi di individui appartenenti a migliaia di specie diverse. Questa qua, chissà.
E allora cosa vogliamo farci? Niente, evidentemente. Ormai è andata così. Però non va mica bene. Forse.

giovedì 17 febbraio 2011

Prendete nota

Il 17 febbraio 2161 (dice che dovrebbe essere un martedì, per la cronaca) ricorrerà il centocinquantenario della pubblicazione di questo post. Ve lo dico già. Potete fin d'ora segnarvelo sull'agenda, e chiedere di fare altrettanto ai vostri figli e ai figli dei vostri figli e ai figli dei figli dei vostri figli e così via. Certo, con ogni probabilità questa ricorrenza non verrà celebrata e neppure lontanamente ricordata. Se ne perderà ogni traccia. Ma se così non fosse, lo sapete già: sarà proprio quel giorno lì. Né quello prima né quello dopo. Ne consegue che si può ragionare sulle più congrue modalità per un'eventuale celebrazione, se non da subito, comunque con un congruo anticipo. Non vorremo mica arrivare a un mese prima dell'evento senza sapere se quel giorno sarà festa o meno. Ci si potrebbe prendere un sano anno sabbatico e poi, il 18 febbraio 2012, con calma, dopo pranzo, radunarsi tutti attorno a un tavolo, esaminare e discutere le ragioni di tutte le parti in causa, riflettere e infine deliberare. E così un povero cristo potrebbe sapere con un anticipo decente se quel giorno là gli toccherà timbrare il cartellino o se, approfittando dei prezzi stracciati che saranno praticati dalle principali compagnie astronautiche a chi prenota anticipatamente, potrà concedersi un meritato viaggetto, magari sfruttando l'apposito ponte con domenica 15. Basta dirlo. Come si fa tra persone civili. In Paesi civili.

venerdì 11 febbraio 2011

Sarzana, 6:22 AM

E buona giornata.

lunedì 7 febbraio 2011

Annali anali

Gente, stamattina ho fatto una tale e tanta cagata che ho perso il treno.
Già, ma chi se ne frega del treno.
I treni passano, cagate così restano.

lunedì 31 gennaio 2011

Fur Gon Cin

Cari miei poliglotti lettori, temo di avere nuovamente bisogno del vostro prezioso aiuto. Perché ho la netta sensazione che la scritta che ho trovato l'altro giorno, e che potete vedere qua sotto (cliccandoci sopra se è troppo piccola, o facendovene una ragione se è troppo grande), dicevo, ho la sensazione che, seppure in maniera assai parziale e indiretta, quella scritta un minimo mi riguardi, ma purtroppo non so dire con esattezza a che titolo e in quale misura. E non è una sensazione piacevole, sapete? Come quando qualcuno parla di voi alle vostre spalle, havete presente? Non è bello, no? Sicché vi sarei grato se voleste offrirmi il vostro generoso e gratuito contributo nella decodifica di codesti esotici simboli.

 Ringraziando per l'attenzione, porgo cordiali saluti.

martedì 25 gennaio 2011

Del bello

Stavo pensando - capita sovente - a quella ragazza là. È la ragazza di un altro, come è ovvio e forse giusto che sia; e però ho avuto se non altro la fortuna di conoscerla, di vederla nelle 4 dimensioni (x, y, z, t), e mi sono reso conto subito, e lo confermo tuttora, che (prescindendo da ogni valutazione che non sia prettamente estetica) quella è senza dubbio la ragazza (e quindi la persona) più bella che abbia mai conosciuto. Dico "conosciuto" e non "visto" perché vederne, forse, ne ho viste di addirittura più belle; di sicuro però quelle le ho viste sempre solo nelle dimensioni (x, y) o al più (x, y, t), e quindi vai a sapere se esistono davvero, e se davvero sono così come le ritraggono e ce le presentano, o se è tutto un tarocco: questa invece, cavolo, è vera.
E - pensavo - probabilmente lo stesso vale anche per lei. Cioè, a occhio lei con ogni probabilità sarà anche la ragazza (e quindi la persona) più bella che lei stessa conosca. Ma - pensavo - chissà se se ne rende conto, e chissà come la vede. Chissà com'è, uscendo dalla doccia, guardarsi allo specchio e rendersi conto che con ogni probabilità non si vedrà mai (meglio: non si toccherà mai) un essere umano più bello di quello che si ha riflesso lì davanti a sé.
E pensavo che però poi, certo, la possibilità che non sia così c'è sempre, per me ma anche per lei. Che noi in effetti, com'è noto, diciamo che una cosa è bella solo perché non ne conosciamo di molto più belle. Anche per gli elementi della natura, un albero, un airone sopra il fiume, un tramonto, un particolare paesaggio: chissà, magari su qualche altro pianeta di qualche altra galassia ce ne sono di tali che i nostri, a confronto, ci fanno tutti la figura di parcheggi di centri commerciali la mattina di Natale. Ma non conoscendoli prendiamo come paragone un valore medio e riconosciamo che quelli si collocano sopra, e allora li definiamo belli, o di più. Chiaro.
E così per le creazioni dell'uomo: una macchina, una chiesa, una statua, un quadro, una poesia, una canzone.
Qua però il discorso si può anche ampliare, perché si può individuare con relativa facilità il creatore del cosiddetto capolavoro: ebbene, chissà se se n'è accorto. Chissà se, un attimo dopo aver finito di scrivere Imagine, o Stairway to Heaven, o Smells Like Teen Spirit (per dirne tre a caso), ci si rende conto subito di aver scritto quello che si è scritto, o se te lo deve dire qualcun altro. E soprattutto, chissà che cosa si prova nel rendersi conto che con ogni probabilità, per quanto ci si sforzi, per quanto si possano ancora buttar giù cose più che discrete, non si creerà mai niente di più bello di quello che si ha lì sotto gli occhi. Di certo questa sensazione, scrivendo questo post, non la sto provando. Chissà perché.

lunedì 17 gennaio 2011

domenica 9 gennaio 2011

Outing

Normalmente, purtroppo, al mattino mi devo svegliare alquanto presto. Di conseguenza, purtroppo, alla sera devo andare a nanna ancora più presto. E così quasi sempre mi perdo lo spettacolo. Ma durante queste vacanze, queste che stanno per finire, potendomelo permettere, me lo sono gustato più di una volta, come ai vecchi tempi, quando magari arrivavo a sera con un sonno bestia, ma mi sforzavo di rimanere sveglio o quanto meno di tenere gli occhi aperti apposta per vederle. O comunque le aspettavo, fissavo la sveglia finché non arrivavano.
Avevo allora una sveglia di quelle digitali, comunissima, con le cifre delle ore e dei minuti composte da 7 lucine rosse a formare dei rettangoli tagliati a metà da una barretta orizzontale, avete presenti? Una sveglia anonima, bruttina, per quanto possa contare l'estetica con la luce spenta. Ma quanto la nobilitavano le 22:55! Osservatele meglio, stasera, sulla vostra sveglia con display a 7 segmenti, le 22:55. Con quei due puntini in mezzo, minimali, e ai lati quelle quattro volute voluttuose e però squadrate, antiche ma moderne, classiche ma contemporanee, semplici ed eleganti. Anche le 20:05 non sono poi male, è vero, ma quei due rettangoloni appesantiscono eccessivamente l'insieme. Invece le 22:55 sono leggere, leggiadre, sinuose, nobili. La lieve inclinazione verso destra, il lieve corsivo, non fa che aumentarne l'eleganza, un po' come per la torre di Pisa. Le 22:22 sono monotone, tutte inclinate dalla stessa parte, asimmetriche, troppo ripetitive. Le 11:11 non se ne parla. Nelle 22:55 invece c'è dell'arte.
E poi rilassano, conciliano il sonno. E non tradiscono, basta aspettarle e loro arrivano. E poi pensate, si leggono anche ribaltando la sveglia, ma in questo caso bisogna ricordarsi di riportarla nella sua posizione canonica prima di addormentarsi, così da evitare incubi dovuti alla visione di orari impossibili in caso di involontari risvegli notturni (e poi, diciamocelo, chi ve lo fa fare di ribaltare la sveglia?).
Insomma, mi piacciono le 22:55 viste su una sveglia digitale con display a LED rossi a 7 segmenti. Ah. L'ho detto. Mi sono tolto un peso. Ora insultatemi pure.

mercoledì 5 gennaio 2011

Pari a Lit. 1364296

Ne consegue che:
  1. Se avete intenzione di investire in azioni, vi consiglio di buttarvi su Ferrovie dello Stato SpA - Partita IVA 06359501001 (non so se è quotata, ma di sicuro per un po' non fallisce);
  2. Se avete intenzione di compiere una rapina a mano armata, un furto con scasso, un rapimento a scopo di estorsione o assimilabili, onde evitare perdite di tempo vi invito caldamente a rivolgervi altrove (se siete stranieri ve lo traduco: no trip for cats);
  3. Se invece avete intenzione di iniziare l'anno aiutando un bisognoso, in separata sede posso fornirvi l'Iban.