giovedì 25 dicembre 2014

C'è chi aspetta la pioggia

C'è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo, e ciò è noto. Ma talvolta l'attesa della pioggia può essere dovuta a ben altre nobili motivazioni.
Ad esempio.
La minzione, comunemente detta pisciata, è già di suo un'operazione assai piacevole, e tanto più è piacevole quanto più era improcrastinabile, e su questo non c'è dubbio. Ma in ogni caso, anche quando non è assolutamente indispensabile alla sopravvivenza, diciamolo: pisciare è un piacere. I primi centilitri soprattutto regalano brividi autentici, sensazioni piacevolissime, ma durante tutta l'operazione ci si sente viepiù leggeri, liberi e (se si è al mare o in piscina o comunque immersi in un liquido) anche caldi. Tutto ciò indipendentemente dalle condizioni meteorologiche al contorno.
Ma pisciare quando piove, secondo me, è il massimo.
Essere al chiuso del proprio o di un altrui cesso, sentire le gocce di pioggia che battono sui tetti, sul terreno, sui vetri, vedere fuori dalla finestrina quella moltitudine di fili d'acqua che scendono dal cielo sulla terra donandole nuova vita; e tutto a un tratto aggiungere a quell'infinità di minuscoli rivoli il proprio modesto ma significativo contributo. Sommare al monotono brusio delle gocce che s'infrangono al suolo l'irregolare ticchettio (per di più di produzione propria) delle gocce che s'infrangono sulla bianca ceramica del cesso. Sentirti un minuscolo frammento di un mondo sconfinato ma regolato ovunque dalle medesime leggi di natura. Sentirti parte di un tutto, in una parola. Che sensazione meravigliosa. Inebriante.
Tu chiamala se vuoi emozione,
ma non dimenticare lo sciacquone,
o Ermione.

domenica 19 ottobre 2014

Dove osano le api

Risposta: fuori.
È quanto ho appreso giusto ieri sera, e non già via etere, dalla premiata ditta P. Angela & Figli SNC, bensì dalla viva voce di un conoscente che di queste cose ne sa a mazzi.
Ebbene, funziona così. D'estate non c'è problema, l'ape esce di frequente dall'alveare, si ciuccia i suoi fiori, si fa i suoi giri, e già che è per la strada, se ne sente la necessità, coglie l'occasione per svuotare liberamente l'intestino dove meglio crede. Il problema viene d'inverno. Se fa freddo, o se piove, l'ape mica esce. Se ne sta lì al caldo, in mezzo al grappolo delle altre api sue coinquiline, e se la tiene. Perché non può mica farla proprio lì, sulla testa di quelle di sotto. E se poi proprio di lì sotto, proprio nell'attimo fatale, passa la regina? No, via, non si fa, un po' d'educazione. Soprattutto, passi la regina, ma mica la si può fare sul miele. Altro che il proverbiale sputo nel piatto dove si mangia, qua. E allora l'ape, buona buona, si trattiene. E aspetta che arrivi una giornata di tempo decente, in cui possa uscire quel tanto che basta per liberarsi dal peso interiore che la opprime e poi ricacciarsi subito al calduccio, dando il cambio a un'altra che era in coda. E già, ma se la bella giornata non arriva? Se il freddo e la pioggia durano più del previsto? Perché l'ape, sì, sarà anche buona e educata e tutto, ma dopo un po' la naturale regolarità prende il sopravvento, e vuole essere rispettata, nel loro piccolo, anche dagli insetti. E quindi sì, quando non ne può più l'ape la fa proprio lì. Dentro all'alveare. Sulle compagne, sulla regina, sul miele, su quello che capita. E a quel punto è un casino. Perché finché è una, pace. Ma quando tutte le api della colonia cominciano a scagazzare le une sulle altre e tutte sul miele, diciamo che in quell'alveare lì tira una brutta aria. E ai disagi causati dall'inverno si sommano quelli più gravi dovuti alle condizioni igieniche divenute assai precarie. E quell'alveare lì passa dei guai, ma seri.
Morale? Non so, forse nessuna, o forse che a volte farla fuori dal bulacco (come si dice in gergo tecnico) ha i suoi vantaggi; ma forse invece deve ancora arrivare. Perché quando dalla pena per le misere sorti di queste operose creaturine del Signore è uscita la domanda più ovvia, ovvero «E le formiche si comportano allo stesso modo?», la risposta di quel tipo che ne sa è stata su per giù «E che ne so, quelle mica fanno il miele».

mercoledì 13 agosto 2014

Ångström chi?

Poi talvolta capita che mi ritrovi in ferie. Di rado, ma capita. E in ferie talvolta capita che mi metto a pensare. So che è un errore, so che fa male, so che non dovrei, ma a volte mi scappa. Oggi, ad esempio, forse anche su suggerimento di un ben noto motore di ricerca, pensavo a questa cosa qua: i colori.
I colori, si sa, sono tanti, e tutti belli colorati: c'è il rosso, c'è il verde, c'è il blu, c'è il giallo, e così via. A stare a sentire le donne, poi, ce n'è un'infinità in più, dall'acquamarina allo zaffiro, passando per bordeaux, ocra, turchese, glicine, cremisi e chissà cos'altro; ma noi ce ne guardiamo bene, dall'ascoltarle, e quindi rimaniamo pure ai primari più noti e certi.
Ora, pensavo, i colori ce li insegnano da bambini, a tutti: il mare è blu, il sole è giallo, la cacca è marrone, eccetera. E quindi tutti, crescendo, associamo quel certo colore lì a quel nome lì, e quando un oggetto è dello stesso colore di quella cosa lì, colore che sappiamo chiamarsi così, diciamo che quella cosa è di quel colore lì anche lei. Tautologico. Tipo, vedo che i Puffi hanno lo stesso colore del mare, mi hanno detto che il colore del mare si chiama blu, e quindi dico che i Puffi sono blu. E ci azzecco.
Sì, ma quel colore lì, il colore del mare e dei Puffi, come sarà visto dagli altri? Non mi riferisco ai daltonici o a altre categorie particolari, è proprio un discorso generale. Voglio dire, magari un altro il mare lo vede di un altro colore, rispetto a come lo vedo io. E però quel colore che vede lo chiama blu anche lui, perché da bambino gli hanno detto che quel colore lì si chiama blu. E così per tutti gli altri. Mettiamo che quel certo colore che io chiamo rosso un altro lo percepisce della tonalità che io chiamo verde, e viceversa. Tutti e due viviamo tranquilli, tutti e due sappiamo che nel semaforo il rosso è sopra e il verde è sotto; e però di fatto vediamo due cose diverse.
E il problema è che non ce lo possiamo dire: se io gli chiedo di che colore è la luce sotto del semaforo, lui mi risponde che è verde, come sono verdi le foglie e le lucertole. E come dargli torto. Ma magari sta vedendo, ha sempre visto e vedrà sempre tutta un'altra cosa da quella che vedo io.
E non è neanche questione di lunghezze d'onda o simili amenità fisiche: lo so anch'io che il rosso sta sopra all'infrarosso, grazie al cavolo: ma, in ultima analisi, cos'è il rosso? O meglio, di che colore è? Boh.
E quindi, pensavo, staranno mica durando un po' troppo, 'ste ferie?

venerdì 3 gennaio 2014

Non-troppo-grandi speranze

Accadde che verso la metà di marzo dell'anno appena trascorso, trovandomi lì sul marciapiede del primo binario, rimasi incuriosito da quel vaso di foggia inconsueta, e soprattutto da quella piantina così minuscola (che razza di piantina? e chi lo sa, so riconoscere a malapena un pino) e da quel sostegno così smisurato; e così li fotografai:

Pensai di scriverci sopra un post, che avrebbe necessariamente ironizzato su quella sproporzione, e sulle sproporzionata fiducia che l'ignoto pollice verde che l'aveva creata doveva aver riposto nella capacità della sua piantina di crescere sana e robusta in un ambiente ostile come può essere il marciapiede del primo binario. Titolo, naturalmente, Grandi speranze.
Poi, un po' che non avevo altro che il titolo, un po' che il blog già allora era in stato di abbandono (o non si era notato?), mi limitai a pubblicare foto e didascalia su un social network che invece, come dicono i giovani, va per la maggiore. Ricevetti 3 pollici in su e la cosa finì lì.
Finì lì finché, giusto pochi giorni or sono, mi ritrovai sullo stesso marciapiede dello stesso primo binario, nei pressi dello stesso vaso. E la rividi. Lì per lì non la riconobbi, e ne avevo le mie buone ragioni; ma poi osservai meglio e, cacchio, sì, era lei, non poteva essere che lei. Il binario era quello, il marciapiede era quello, il vaso era quello, il sostegno era quello, mica poteva essere un'altra proprio la pianta.
E fui lieto di rivederla, e di rivederla in forma così smagliante. E fui soprattutto lieto di essermi risparmiato, per una volta, dell'ironia facile e spesa male. Mi limitai dunque, dopo una superficiale riflessione sulla forza della vita che ti trascinerà con sé e via dicendo, a fare qualche passo indietro (ma senza oltrepassare la linea gialla, eh) e a fotografarla nuovamente:
Qualora venissi a conoscenza di ulteriori sviluppi, vi terrò informati. Sempre che invece non arrivi prima lei lì da voi.